Dal Giappone la cultura del miglioramento continuo: intervista a Jacopo Lomboni e Daniele Valsecchi

Stories of excellence

Il miglioramento non è uno stravolgimento del modo di lavorare, è il frutto di piccoli miglioramenti suggeriti dalle persone nelle attività di ogni giorno. Suggerimenti da raccogliere e accogliere, per definire processi più efficienti che hanno come conseguenza naturale dei prodotti d’eccellenza. Ecco il cuore del kaizen, cultura del miglioramento continuo nata in Giappone negli anni ’80 e che sta alla base dei processi di trasformazione lean come quello intrapreso da OMET un anno fa. Jacopo Lomboni e Daniele Valsecchi hanno avuto occasione di conoscere da vicino il kaizen durante il training in Giappone organizzato da Auxiell nel mese di ottobre: ce lo raccontano in questa intervista.

Daniele e Jacopo, cosa portate a casa da questa esperienza?
Abbiamo visto una cultura molto diversa dalla nostra, dove si pensa più alla collettività che all’individuo. Sul lavoro e nella vita di tutti i giorni in Giappone l’obiettivo è fare bene per gli altri, in una logica fornitore/cliente applicata ad ogni relazione: “Faccio il mio lavoro nel miglior modo possibile non per mia comodità ma per chi viene dopo di me”. C’è molto rispetto per le persone e per le cose.

Su cosa si basa il miglioramento continuo?
E’ molto semplice, si dedica ogni giorno del tempo a migliorare il proprio lavoro. Lo fanno tutti, anche nelle mansioni più semplici. In alcuni casi hanno un taccuino sul banco di lavoro dove segnano i possibili miglioramenti da apportare al processo che seguono, per poi condividerli con i responsabili e definire degli standard nuovi e più efficienti. Questo non accade solo nelle aziende grandi ma anche in piccole e medie imprese.

Come riescono le aziende a recepire tutti i suggerimenti dei loro collaboratori?
Li monitorano e li condividono, prima di tutto. Se una persona capisce che è meglio cambiare la posizione di un attrezzo, suggerisce la nuova soluzione ma non la attua finchè non riceve un feedback positivo che si traduce in un nuovo standard esteso a tutta l’azienda. Anche noi, nel nostro lavoro, facciamo piccoli miglioramenti quotidiani, ma non li tracciamo, non li condividiamo con gli altri. E’ questa la grossa differenza.

A volte non si condivide perché si teme di non essere ascoltati o che la burocrazia blocchi il cambiamento.
In Giappone c’è tanta burocrazia, forse anche più che in Italia, ma il meccanismo gira perfettamente e tutto viene sbrigato in modo veloce. Sono ligi alle regole, ma al contempo sono aperti al cambiamento: nessuno dice “abbiamo sempre fatto così”. Valutano ogni proposta. Abbiamo capito inoltre che il miglioramento non è uno stravolgimento, ma l’insieme di piccoli miglioramenti che possono riguardare la posizione di un utensile, l’impostazione di un movimento, l’inclinazione di una macchina: piccole cose che sommate producono un grande miglioramento, perché individuano ed eliminano degli sprechi lungo il processo produttivo.

La prima organizzazione ad applicare il principio del miglioramento continuo è stata Toyota. Li avete incontrati?
Abbiamo conosciuto tre ex-manager della Toyota in pensione, che hanno vissuto gli anni di boom del kaizen e ora gestiscono un “dojo”, un centro di formazione kaizen. Ci hanno spiegato come migliorare i tempi, definire gli standard, riconoscere le attività valore aggiunto. Il prodotto finale, per loro, non è mai l’obiettivo: la chiave di tutto è il processo, che se eseguito correttamente porta automaticamente ad un prodotto di alto livello. Il loro focus non è mai cosa fare, ma come farlo e perché. Non fanno aggiustaggi continui mentre lavorano, seguono gli standard senza preoccuparsi di verificare ogni passo o fare delle prove: devono solo segnalare possibili miglioramenti. Siamo entusiasti di ciò che abbiamo visto, ma non crediamo che il nostro modo di lavorare sia da sostituire con il loro. L’ingegno italiano applicato al principio di miglioramento continuo giapponese potrebbe portare davvero a grandi risultati.

Perché è importante riconoscere le attività a valore aggiunto?
La domanda da farsi è: dove si crea il valore aggiunto? Per le aziende manifatturiere, la maggior parte è nel processo che porta alla realizzazione del prodotto. Ovunque io lavori, sia in ufficio che in produzione, devo cercare di portare beneficio là dove si crea valore. Il lean riguarda quindi la produzione ma anche il personale degli uffici, dove abbiamo visto livelli estremi di organizzazione basata ad esempio su elementi visual. Obiettivi, riunioni, impegni quotidiani: tutto è scritto, colorato e disegnato per far sì che l’informazione arrivi in modo immediato e semplice a chiunque serva.

Come si tradurrà questa esperienza in OMET?
Dobbiamo portare il progetto di miglioramento continuo ad ogni livello, anche nelle mansioni più semplici le persone devono dare il proprio contributo. In magazzino abbiamo già iniziato a raccogliere proposte: alcune persone da anni magari pensavano di migliorare questo o quel processo. Anche in produzione sono attive soluzioni per accogliere le varie proposte/difficoltà degli operatori. Un po’ come si fa nelle aziende giapponesi, da qualche tempo si tiene un meeting giornaliero a cui prendono parte tutte le funzioni convolte nel processo di produzione della linea X6. Lo scopo è condividere i problemi riscontrati, assegnarli all’ufficio competente e monitorare giorno per giorno la loro risoluzione.

Come si può spingere le persone dare il proprio contributo?
In Giappone, tutti eravamo stupiti dal livello di coinvolgimento delle persone. Ci hanno spiegato che chi propone dei miglioramenti non è nemmeno premiato a livello economico, ma viene sempre gratificato, ad esempio durante riunioni periodiche in cui la direzione si complimenta davanti ai colleghi. Per loro questo vale tantissimo. In Italia è più facile trovare chi ti critica: siamo abituati a guardare il nostro “orticello” invece per loro l’obiettivo è “far star bene l’azienda, di conseguenza starò bene io”. Non viceversa.

C’è molto spirito di squadra…
Hanno un senso di appartenenza molto forte. Abbiamo visto un’azienda in cui il personale si trova la mattina prima del lavoro per recitare il motto aziendale in coro. Un’altra in cui fanno insieme le pulizie negli ambienti di lavoro (imparano da piccoli, già alle elementari i bambini puliscono la propria scuola). A queste attività partecipano tutti i livelli: dal proprietario all’operaio. Non sono pagati. Ma sono convinti, e ce lo hanno mostrato, che tenendo pulito e in ordine si lavora meglio e con maggiore efficienza. I dirigenti, partecipando, danno il buon esempio che viene seguito da tutti. I giapponesi tendono a rimanere una vita nella stessa azienda, cambiare per loro è un fallimento.

Con chi avete condiviso il viaggio?
Il gruppo dello study tour comprendeva una decina di persone di aziende italiane, manifatturiere, più due consulenti finanziari. E’ stata un’occasione per confrontarsi con altre realtà italiane più avanti di noi nella trasformazione lean.
L’esperienza dello study tour sarà ripetuta per dare la stessa opportunità a diverse figure coinvolte nel processo di «lean transformation» in OMET.

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